Che a molti piaccia o no, la Hero Dolomites continuerà ad essere l’evento numero uno della Mountain Bike. Vuoi il tracciato, il marchio, le Dolomiti, l’organizzazione perfetta o tutto assieme ma questo è un dato di fatto. E alla Hero Dolomites, trovi tre tipologie di atleti: chi ci va per il risultato, chi preparato si confronta con se stesso senza velleità di vittoria e chi invece stenta ad arrivare. Il primo non vede nulla, non vede ristori, panorami, niente. Il secondo vede il primo e ogni tanto alza la testa per vedere sua maestà, il Gruppo Sella. Il terzo vede entrambi, si gode al massimo l’esperienza fino a che la fatica non gli prende il sopravvento e la gara diventa un’agonia. Non ci vergognamo di dirlo, ma noi eravamo nella terza fascia. Andati su senza allenamento, con circa 900 km nelle gambe, dopo la nostra breve, ma intensa stagione da organizzatori finita solo qualche giorno prima. E un organizzatore che corre una gara guarda tutto ma proprio tutto, chiamatela se volete “deformazione professionale…”.
Ma la domanda che ci siamo posti è stata: è giusto chiamarci eroi? E’ corretto usare un aggettivo del genere in quella che è una semplice corsa amatoriale? C’è la siamo fatta svariate volte questa domanda nel silenzio delle salite e delle montagne. Rampe che a guardarle dal basso trasmettevano maestosità e dall’alto vertigini. Un’altimetria che solo a guardarla dalla brochure informativa faceva accapponare la pelle. Salite che solo a nominarle risuonavano come canti infernali: Dantercepies, Pralongià, Ornella, Sourasass, Duron… Abbiamo scalato la prima vetta alle prime luci del mattino, con l’aria frizzante, il pubblico accorso numeroso in funivia e tanto entusiasmo, transitando per Corvara e il Campolongo aspettando la temuta Ornella, la salita più dura della gara chiusa nel suo fitto bosco di abeti, o per lo meno così la ricordavamo.
Già perchè invece abbiamo dovuto assistere ad uno spettacolo impietoso, fatto di alberi accatassati gli uni con gli altri in un bosco violentato dalla natura stessa dopo la follia di qualche mese fa. L’avevamo vista in televisione quella devastazione, ma dal vivo è esponenziale alla decima potenza. Eppure, nonostante questo, consci che tutto quello sia anche merito nostro, tante, troppe persone, concentrate solo sulle loro pseudo prestazioni sportive, gettavano rifiuti per terra. No, non siamo eroi, siamo solo esaltati di merda senza nessun rispetto (abbiamo pensato).
Piano piano il bosco (o quello che ne rimaneva) si è diradato e già presi da una crisi in stato avanzato abbiamo oltrepassato a fatica l’ultimo muro in cemento che ci portava a Porta Vescovo circondati (ancora) da un mare di neve.
La successiva discesa è stata un toccasana per molti, i quali allo stremo delle forze dovevano ancora affrontare la Val Duron, proprio li, dove a meno di 30 chilometri dal traguardo, con oltre un ora di gara dove eravamo già in difetto di energie, ci si è spento letteralmente il motore. Tra pascoli e mucche disinteressate a noi e alle nostre eroiche follie, ci siamo sdraiati a terra, tra gli occhi degli altri atleti che con andatura lenta e sguardo basso attendevano indenni, una fine analoga alla nostra. Maledicendo quella volta che abbiamo scelto di fare una fatica del genere, ci sono tornate alla mente le parole lette su un libro di alpinismo che esprimeva quanto sia importante per gli amanti dello sport e della montagna, cercare il limite estremo per testare la durezza della propria pelle e del proprio ego. Potevamo girare la bici e salire sulla prima scopa diretta a Selva di Val Gardena… Eravamo ancora in alto mare per l’ambito arrivo, molti a Canazei erano già saliti sul tram del ritorno, ma abbiamo riordinato le idee, abbiamo dato il tempo che serviva al nostro motore per rimettersi in moto e siamo rimontati in sella. Da li alla cima del Duron è stato un impietoso scenario di gambe che grippavano e di menti poco lucide che ad ogni curva imprecavano vedendo l’ennesimo muro al 30%. L’ultima salita (che molti non sanno nemmeno che esiste) dopo la Val Duron è stata percorsa come quando siamo soli in macchina, con il cruscotto che ti segna 5 km di autonomia e attorno a te c’è il deserto più totale (cioè cagandoci addosso). Ma quella gara la conoscevamo, l’avevamo già fatta e quando abbiamo visto la chiesina davanti a noi che segnava la fine dei 4.700 metri di dislivello con gli ultimi 12 km tutti in discesa, ci siamo appoggiati alla balaustra di un piccolo ponte che attraversava un ruscello e abbiamo sorriso. Abbiamo ascoltato quel melodico suono dell’acqua che scende dalla montagna e abbiamo tirato un sospiro d sollievo. Erano passate da poco le 8 ore, Paez ci avrebbe probabilmente doppiato, ma non c’è ne fregava niente… Gli ultimi chilometri sono stati interminabili, ma ad un certo punto i primi tetti del paese sono comparsi, poi la musica sempre più forte, la voce dello speaker, i primi accompagnatori, l’arrivo, la gioia e la domanda: possiamo essere considerati eroi? Ancora una volta rispondiamo NO, gli eroi sono altri, noi ci stiamo solo divertendo fondamentalmente. Ma se intendete dire che abbiamo terminato una gara massacrante, sfidando le nostre paure, conciliando pochi allenamenti con casa, lavoro e famiglia allora SI, #theheroinme…